L’approccio ai disturbi alimentari e all’autolesionismo

Inizialmente, pensavo di scrivere articoli separatamente per trattare i vari disturbi alimentari (DCA) e fenomeni come l’autolesionismo. Alla fine, è una scelta che ho deciso di non compiere. Perché? Perché credo che gli articoli che spiegano cosa sono l’anoressia o la bulimia, così come il bing eating disorder e l’autolesionismo, ormai si sprechino e sarebbe del tutto inutile utilizzare questo tipo di approccio. Per alcuni, sembra incomprensibile e senza senso arrivare ad affamarsi per perdere peso, senza fermarsi nemmeno quando si è oggettivamente sottopeso. Sembra inconcepibile che si arrivi a ingurgitare chili di cibo in pochi minuti e poi magari a vomitare tutto rovinandosi i denti. E sembra del tutto stupido arrivare a tagliarsi il braccio come forma di dipendenza (tagliarsi rilascia le endorfine, come nel sesso). Il punto è che, per quanto questi fenomeni sembrino assurdi, tutto scatta dalla mente, dal vissuto di una persona e dai traumi che hanno influito nella psiche. Stiamo infatti parlando di persone che soffrono, chi per un motivo e chi per un altro. Quando ci fu la strage della Columbia High School nel 1999, Marilyn Manson fu accusato di aver istigato i due ragazzi autori della strage. Gli fu chiesto che cosa avrebbe detto a quei ragazzi e Manson, evidentemente più intelligente di quello che in molti credono, rispose che non avrebbe detto nulla, ma che li avrebbe ascoltati. Ecco, è proprio questo che chi sta male vuole dire, in modo sbagliato ma a modo suo sincero. Perché una adolescente arriva ad ambire di essere come una top model in pelle e ossa? Perché magari ha subito una delusione amorosa, perché vuole ribellarsi ai genitori. Perché uno arriva a ingozzarsi di cibo? Perché si sente solo, perché i compagni di scuola lo prendono in giro. Perché uno arriva a tagliarsi? Perché non riesce a gestire in modo corretto quello che prova, perché non è consapevole di se stesso. Insomma, eccetera, eccetera ed eccetera. Un discorso del genere può essere fatto, ovviamente, anche per chi è fa abuso di alcol o è tossicodipendente.

Anoressia e religione

Ci tenevo a fare un chiarimento sull’anoressia. Oggigiorno spesso si collega l’anoressia al modello delle riviste di moda e all’ideale di bellezza magro. A prescindere dal fatto che la vera bellezza è essere magri e forti (cioè seguendo un buon stile di vita!), al limite questi fattori aggravano un problema già presente alla radice. Ed è poi anche vero che il “valore” dell’anoressia è cambiato nel corso dei secoli. Secoli fa, l’anoressia era collegata alla religione. Cosa credete che facessero personaggi come Caterina da Siena e Francesco d’Assisi digiunando? Santi per i credenti, ma a tutti gli effetti il loro atteggiamento era tipico dell’anoressia! Cambiava il “modello” da seguire… che all’epoca era la religione! L’anoressia è una malattia che è sempre esistita. Ciò che è cambiato è il modello sociale.

Il ruolo dei genitori

Se pensate di volere un figlio, leggete questo articolo e non fate gli errori che fanno in tanti altri. Essere genitori non è uno scherzo e un figlio non è un giocattolo. Essere genitori vuol dire avere una laurea, in pratica: la laurea del saper vivere e comprendere il mondo. Se non si sa educare bene un figlio, questi sarà un handicappato bisognoso nella vita, debole. E magari svilupperà seri problemi e disturbi. Cosa fare, quando i disturbi e i problemi sono già in atto? Chiaro che sarebbe stato meglio prevenire con una buona educazione ma, quando ormai la frittata è fatta, non ci resta che farci un bel bagno di modestia e cambiare. Abbiamo sbagliato, punto e stop. Forse non verremo ascoltati e, probabilmente, la controparte non avrà voglia di risollevarsi, ma sarebbe anche sbagliato rivelarsi superficiali e con leggerezza. Chi ha determinati disturbi sta comunicando qualcosa, un bisogno. È ovvio che abbia bisogno di un supporto terapeutico e che le sue manifestazioni siano sbagliate, ma sta cercando di dire qualcosa di importante o che lui ritiene tale. E tutto questo non va sottovalutato, non va preso sotto gamba o ignorato. Sta cercando di attirare l’attenzione? Beh, cerchiamo di capire perché sta cercando di attirare l’attenzione. Non capitemi male, capire perché sta cercando di attirare l’attenzione non vuol dire assecondare chi sta male, ma mettersi nei suoi panni per poter agire nel modo corretto. Poi potremo anche usare parole dure (del tipo, a un’anoressica potrei dire “e tu, uccidendoti, pensi di risolvere qualcosa? ma non vedi che stai solamente perdendo la tua dignità?”), ma lo faremo in modo costruttivo. È da mettere in conto la difesa per risentimento. D’altronde è questo che differenzia uno spacciato da una persona che vuole reagire e cambiare. Chi vuole reagire e cambiare magari si arrabbia, però poi una voce nella sua testa scatta e dice “no, non deve andare così”. Il nodo cruciale sta nel metterci bontà nella critica, per quanto dura e micidiale. Ma il problema è a monte: si ascolta così poco che tagliarsi o dipendere dalla bilancia è visto come un banale capriccio o qualcosa di perverso e basta, tanto noi abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare per essere dei buoni genitori e la colpa è dei media o di quei cantanti metal con quei testi violenti.

Il ruolo degli altri: quando perseverare e quando mollare

Chi ha un amico o un partner che soffre di un disturbo come i DCA o l’autolesionismo non è esente dalle considerazioni fatte sul ruolo dei genitori, con una sostanziale differenza. Ovvero, se un genitore può insistere fino alla fine sulla guarigione del figlio (sarebbe “naturale”, sono pur sempre i genitori), l’amico o il partner non può di certo rovinarsi l’esistenza per i disturbi dell’altro. Resta da verificare una cosa: se l’altra persona è spacciata o no. Possiamo concedere del tempo (ad esempio sei mesi) per vedere se fa dei progressi. Se sì, possiamo fare la scelta di restare, altrimenti… beh, sarà duro da dire, ma nessuno merita di rovinarsi l’esistenza in questo modo. Può sembrare egoistico, ma è come quando cerchi di salvare una persona che sta affogando e questa ti tira giù sotto l’acqua. Cosa facciamo? Ci facciamo ammazzare? Il bene verso gli altri non deve mai superare il bene verso noi stessi, altrimenti è masochistico. Se il male altrui ci porta alla rovina, è meglio andare via. Purtroppo succede. Ascolto, consigli e critiche costruttive, critiche dure ma buone sì ma, se tutto questo non funziona, si dice basta. Sono convinto che, quando si vuole bene a qualcuno, non si può abbandonarlo con leggerezza e senza prima aver fatto un tentativo, ma spesso le cose non vanno come vogliamo e siamo costretti a compiere la dolorosa scelta, che però ci salva da un annegamento comune.

Specifico che, nel caso in cui non siano coinvolti i genitori o i parenti a maggior contatto, non è sbagliato pazientare. Sono convinto che, quando si vuole bene a un amico o si ama un partner, si deve dare l’occasione di reagire dall’altra parte. Questo vuol dire essere persone buone. Non siamo robot e non siamo razionalità estrema. Quello che è sbagliato fare è dare chance a oltranza. Date del tempo ma, se l’altra persona non mostra di voler davvero cambiare, allora sì che bisogna essere “spietati” e mollare la presa. Non bisogna essere fieramente cinici e dimostrare di essere l’esempio perfetto di equilibrio. Anzi, chi ostenta questo carattere è, quasi sempre, il primo a essere squilibrato, magari senza darlo a vedere perché nasconde bene quella parte. Se però proseguite per anni e vi affossate, vi fate trascinare e sommergere, è il caso di prendere una via diversa.

Forse, alcuni che non hanno mai approfondito queste tematiche penseranno qualcosa del tipo “ma che diamine sta dicendo?”, eppure, se magari hanno dei cari che soffrono, con il mio articolo possono iniziare a capire qualcosa e donare un sostegno concreto. Altri che invece vivono questi problemi possono dire che è crudele abbandonare chi sta male, ma sfortunatamente va così. Sicuramente, ci vuole una gran dose di empatia e pazienza per sostenere chi soffre e ci vuole una gran voglia di cambiare e vivere per uscire da questi malesseri. Non lo nego. Però bisogna anche saper essere realistici e valutare cosa conviene fare a seconda delle situazioni. Certo, potrei stare qui a discutere per pagine e pagine su altro ancora, ma credo che il resto spetti a ognuno e che il mio articolo sia solo uno spunto di partenza.

Il ruolo della società

Ho detto che, in alcuni casi, per non soccombere bisogna saper mollare. Ma non interpretate male il discorso, perché tutti quanti dovremmo riflettere su qualcosa. Il punto è che:

il vero e proprio problema non è un disturbo, bensì il contesto sociale e l’ambiente.

Mi spiego. Se anche c’è una predisposizione genetica, l’ambiente favorisce questa predisposizione. Ognuno di noi è geneticamente predisposto a qualcosa, ma non tutti quelli che sono predisposti al cancro si ammalano di cancro! Insomma, è vero che è il singolo individuo a scegliere di farsi del male, ma non si può mascherare che ciò che ci circonda ha un contributo. Viene sottovalutato tutto il contesto di disagio e disadattamento che parte, spesso, dall’infanzia. Molti medici e psichiatri, quando hanno a che fare con chi soffre di DCA, problemi vari o dipendenze, si concentrano sul “sintomo”, ma non su quello che sta alla base. Per dolo o per miopia, in effetti è più semplice fare così. È più semplice perché, altrimenti, la società sarebbe costretta a farsi un bel bagno di autocritica. Dovrebbe rivedere i suoi modelli e i suoi condizionamenti. E, no, le riviste di moda non possono essere il reale cattivo di turno. Le riviste di moda sono solo un capro espiatorio che toglie le responsabilità agli adulti o ai genitori. È più facile prendere un anoressico o imbottirlo di farmaci, così si può restare nella cecità.

Purtroppo, la tendenza va sempre in verso miope. I media parlano spesso dei giovani che abusano di alcol, consumano droghe e sono dipendenti dai social network. Nascondono pilatescamente che questi comportamenti sono ereditati dagli adulti (non necessariamente dai genitori… dall’ambiente, diremmo). Una volta si insultava il forestiero al bar con la cricca, ora lo si fa sui social network. Una volta si entrava in osteria alla sera e si usciva al mattino sbronzi marci, e ora lo si fa in discoteca. Una volta si stuprava in paese, e ora lo si fa alle feste. Non vedo la differenza ma, anzi, il tentativo di dare sempre la colpa ad altro o a qualcun altro (come gli immigrati). Il cattivo esempio parte dagli adulti, poi i giovani assorbono e replicano gli atteggiamenti. Vale anche per i DCA. Se viviamo in una società dove, pur essendo sempre più in sovrappeso, discriminiamo il grasso, è facile che una persona fragile caschi nei meccanismi dannosi. Attenzione al termine “discriminazione”, perché sappiamo tutti che il sovrappeso è un fattore di rischio. Quello che si sviluppa è una visione meramente estetica che porta alcune persone a un calo di autostima e, per conseguenza, alle ossessioni. Non è una cosa che si sviluppa nella testa di qualcuno perché è nato così, ma da situazioni che esistono già.

La malattia di essere giudici della società