Guida alla metrica (per divertirsi e provare)

Ho pensato di scrivere questa guida alla metrica perché potrebbe essere divertente esercitarsi, anche senza alcuna aspirazione di fare poesia (però magari, chissà, da cosa nasce cosa). Insomma, anche se non siete aspiranti poeti, potete divertirvi a buttare giù qualcosa per stimolare la mente. C’è chi fa il sudoku, chi gioca a scacchi e direi che si possa anche provare a scrivere in metrica. Magari potete divertirvi con degli haiku e questa guida vi sarà utile in ogni caso (state però attenti perché esprimere quel tipo di immagine in pochi versi è tutt’altro che semplice!).

Parto con il dire che la sillabazione metrica è diversa da quella grammaticale. Ciò nonostante, la grammatica è sempre la base. Non vi sto a spiegare come funziona la sillabazione grammaticale. Dovreste già saperla dai tempi della scuola. E se avete dubbi, in caso esiste sempre il buon vecchio dizionario (attenzione a quelli on-line come quello de La Repubblica, però!). So che oggigiorno scrivono tutti con lo smartphone e l’inserimento automatico delle parole, ma se impariamo o re-impariamo ad usare il caro e vecchio dizionario forse potremmo torturare meno la lingua italiana.

Ovviamente, in una guida come questa (che deve per forza essere riassuntiva), non si esauriscono tutti i casi. Cosa fare? Andare a vedere quello che fanno i classici! Imparate a leggere la poesia. Non potete pensare di scrivere in versi se non leggete la poesia prima di tutto (la classica frase “eh ma io non leggo per non farmi influenzare”, che è una boiata pazzesca!). Frugate tra i classici e vedrete che troverete quello che vi serve per chiarire. Non leggete improbabili guide e manuali per forum perché, spulciando, ho notato che buona parte di quello che dicono è sbagliata e scritta, evidentemente, da chi o non legge per davvero o legge pochissimo. I classici sono tali proprio perché sanno quello che fanno e non sono degli stupidi. Non sono dilettanti come lo siamo noi ed è da loro che possiamo imparare.

Sinalefe e dialefe

Una cosa che avrete imparato dalla scuola è la sinalefe, ovvero la pronuncia monosillabica di due vocali o dittonghi appartenenti a due parole diverse venute a contatto nel verso. “E quindi uscimmo a riveder le stelle”.

Va però detto che non sempre si può fare la sinalefe. Quando? In genere quando abbiamo una vocale forte seguita da una vocale accentata (vale anche all’interno della stessa parola). Le vocali forti sono a, e, o. Oppure quando abbiamo due vocali accentate, tipo l’associazione “andrò anche”. Anche la combinazione “E io” sarebbe in teoria dialefe (caso 1 della sineresi). Se notate, però, questo tipo di pronuncia risulta piuttosto cacofonico. Chi ha sensibilità per la pronuncia e al ritmo tende spontaneamente a non cercare queste combinazioni. E, infatti, i poeti classici non scrivono “le ali”, “le urne”, “le armi”. Scrivono “l’ali”, “l’urne”, “l’armi” ecc. Non è roba stramba per farsi fighi. Si fa davvero così (basta non abusare!). La dialefe è presente abbastanza nella poesia di Dante e dei suoi contemporanei. Con Petrarca, la pratica della dialefe viene scoraggiata e quella petrarchesca è la metrica a tutt’oggi diffusa. Quindi, a parte i casi specifici descritti, la sinalefe c’è sempre, mentre la dialefe viene scoraggiata.

Sineresi

La sineresi non è esattamente un caso specifico della sinalefe all’interno della singola parola. Genericamente, è l’unione di due vocali che sono separate nella sillabazione grammaticale. Consideriamo quattro casi per capire che ciò non lo relega a un mero caso all’interno della sinalefe.

1) Vocale forte seguita da vocale accentata
La sineresi non è assolutamente possibile. Diventa effettivamente la dialefe, ma all’interno della singola parola. Parole come soave, maestro, leale, leone ecc mantengono la sillabazione grammaticale. State attenti, perché esistono accostamenti come “le ore”, “le urne”, “le ali”. Cosa succede in questi casi? La poesia più moderna ci dice di contrarre. Così, otterremo “l’ore”, “l’urne”, “l’ali” ecc, in modo da evitare la fastidiosa dialefe.

2) Vocale accentata seguita da vocale atona
Si fa sempre la sineresi. Parole come oceano, moveano, accogliean, via, mio, tuo, suoi, tuoi, buoi, guai, spia ecc NON mantengono la sillabazione grammaticale. A parte le prime tre, le altre parole sono tutte monosillabi (“ghiaia” e “gioia” sono bisillabi perché abbiamo due vocali atone dopo l’accento!). Questa cosa, attenzione, vale solo all’interno del verso. “Oceano” (ma esiste la variante “oceàno”!), se posto in fine di verso, torna a separare le vocali per eventuali esigenze di rima. E così tutte le altre parole simili, come corteo, via ecc.

3) Vocali atone
In genere si mantiene la sillabazione grammaticale. Se abbiamo due vocali forti (a, e, o come detto), a volte qualcuno fa la sineresi, ma non sempre: sono eccezioni (semmai può capitare in poesie antiche, dove la canonizzazione petrarchesca non era ancora diffusa). Finora l’ho visto fare a Dante quando scrive il nome di Beatrice. Una cospicua parte la scrive con la sineresi e l’altra cospicua parte senza sineresi (il nome Beatrice nella Comedìa dilaga). Questo serve anche far capire che la pronuncia può risultare ambigua. Se però pronunciate termini come maestrale, maestoso, soavemente ecc, già vi accorgete che la separazione in iato è più evidente. Ho poi visto alcuni casi eccezionali in Emilio Praga (autore forse poco noto, ma di cui trovate la raccolta “La tavolozza” su Liber Liber). Solitamente, viene mantenuta la sillabazione grammaticale. Carducci scrive parole come maestrale, soavità, Beatrice, leopardo mantenendo la sillabazione grammaticale. Anche Foscolo fa lo stesso, ad esempio con soavemente (dal famoso sonetto “Alla sera”). Idem fa Petrarca con termini simili. Non è necessario segnalare con i due puntini della dieresi. Corrisponde alla sillabazione grammaticale e tanto rimane. Se le due vocali atone sono poste alla fine della parola fanno però sineresi. Vedi ad esempio le parole etereo, citerea, venereo ecc, tornando però a separare le vocali se alla fine del verso.

4) Vocale debole più vocale accentata
Questo è un bel dilemma per due motivi. Il primo è che abbiamo perso la sensibilità per la poesia e quindi l’orecchio dei moderni non è più abituato a scandire le sillabe. L’altro motivo è che c’è effettivamente una differenza di pronuncia tra nord e centro o sud. Il nord tende fare sineresi nella pronuncia, mentre al centro e al sud si tende a separare le vocali in maniera decisamente marcata. Cosa fare? I classici non si sono posti il problema: vale la sillabazione grammaticale e quindi le vocali vanno separate. Tuttavia, anche loro sapevano che ci potevano essere ambiguità e mettevano il segno diacritico per scansare i dubbi (alcuni testi on-line omettono il segno perché lo dimenticano, quindi state attenti). Fatelo quindi anche voi. Parole come quiete, sinuoso, tumultuoso, luttuoso, lussuoso, flessuoso, santuario ecc hanno la dieresi (“lenzuòla” no, ma esiste la variante “lenzòla”). Foscolo non ha messo la dieresi su “quiete” (“Forse perché della fatal quïete”) perché altrimenti non sarebbe riuscito a fare l’endecasillabo. L’ha messa proprio per scansare i dubbi. Altrimenti, uno potrebbe interpretarlo come bisillabo e far risultare strane pronunce tipo “quete” (che comunque si può dire, ma senza la “i”, così come si può ovviamente dire “cheto”). O “trionfo” (trisillabo) che diventa “tronfo”, ma anche il nome Luìgi che, da bisillabo, rischia di essere pronunciato come Lùigi (quindi mettete la dieresi per evitare questi equivoci). Attenzione perché, nelle situazioni descritte, non è così banale. Esistono ancora tante persone che pronunciano “cilïegio” oppure “cïelo” (benché siano, rispettivamente, trisillabo e bisillabo come da grammatica), quindi lo zelo di mettere la dieresi non è un segno che fa pura bellezza.

Nel caso di tre o addirittura più vocali contigue, come ad esempio “aiuola” o “boiata”, con la sillabazione grammaticale non sbagliate (“a-iuò-la” e “bo-ià-ta”… non serve il segno della dieresi!). Il mio consiglio è, per non sbagliare, quello di controllare sempre il dizionario se non siete ancora esperti (“frastuono” e “dileguare” sono termini con la sineresi!). Il dizionario è sempre il compagno fedele di un poeta, quindi nessuna vergogna!

Accenti

L’accento in poesia è molto importante, perché serve a dare ritmo. Il fatto è che, spesso, l’accentazione è soggettiva, specie in versi molto versatili come l’endecasillabo. In genere si considerano atone le particelle più piccole. Restano atone le particelle con l’elisione. Ad es. “dell’amico”, “sull’antro”, “nell’annale” ecc.

1)
I pronomi personali monosillabici (io, lui, lei) seguiti dal verbo sono atoni. Ad es. “io mangio”, “lui ricopre”, “lei sovvenne” ecc.

2)
I verbi ausiliari essere e avere seguiti dal participio sono atoni. Ciò vale anche per varianti come “avea fatto”, dove “avea”, che per sineresi è bisillabo, è atono (se però dico “aveano”, anche qui ovviamente con la sineresi, l’accento resta perché vale il contatto con la sillaba accentata dell’ausiliare). Il verbo ausiliare “è” viene considerato atono anche in alcune forme come nel verso “Dolce e chiara è la notte e senza vento”. Provate a pronunciare il verso. Vi accorgerete facilmente che “è” tenderà addirittura quasi a non sentirsi.

3)
Gli aggettivi monosillabici seguiti dal sostantivo (mio, tuo, suo, tuoi, gran, bel, buon ecc) sono atoni. Se, al contrario, è l’aggettivo a seguire il sostantivo torna ad essere accentato.

In linea teorica, due accenti consecutivi, ovvero il contraccento, sono vietati, a meno che non vi sia una forma di cesura (vedi la parte sui versi). “Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori”. È evidente il contraccento, ma essendo un endecasillabo a maiore abbiamo la cesura piuttosto evidente. A proposito di contraccenti, esistono particelle teoricamente accentate, ma che non vengono considerate tali (in effetti nella pronuncia si tende a non sentire l’accento). È il caso di alcune preposizioni articolate. Leopardi scrive “essi alla terra, un punto” e “anche tu presto alla crudel possanza”. O Foscolo che scrive “Lascia alle ortiche di deserta gleba”. E anche “Lascia agli ispidi canti le mestizie” (me lo sono inventato ora di sana pianta). Questo accade perché la preposizione articolata, così messa, tende ad essere pronunciata un po’ all’arcaica maniera, cioè con le due sillabe distinte e quindi senza accento. In linea generale, il contraccento è deprecato (salvo casi di cesura), ma a volte può capitare e meglio sarebbe non farlo, almeno per mio personale gusto (io faccio così, evito anche i contraccenti anche in presenza di cesura).

I versi

Concludo con una breve analisi dei versi della metrica italiana. Non analizzo le varie forme di ritmo perché ciò risulterebbe troppo vasto o tedioso e probabilmente inutile per chi vuole iniziare divertendosi.

1) Endecasillabo e settenario (versi principe)
Il verso principe della poesia italiana è indubbiamente l’endecasillabo. Esso non è un verso formato da undici sillabe, ma nemmeno un verso con l’ultimo accento sulla decima. Infatti, come già anticipato prima, è richiesto un altro accento secondario/obbligatorio sulla quarta e/o sulla sesta (quindi 4 e/o 6 e 10). Se cade sulla quarta si dice a minore, mentre se cade sulla sesta si dice a maiore. Di solito è raro che, fino alla sesta sillaba, solo la prima sia accentata o che nessuna lo sia. La stessa cosa, all’inverso, vale per l’endecasillabo a minore, cioè arrivando alla decima sillaba senza alcun accento dopo la quarta. Io tendo a non lasciare mai più di tre sillabea tone. La distinzione tra a minore ed a maiore segna anche la cesura. Tuttavia, spesso questi schemi si fondono e abbiamo l’accento sia sulla quarta sia sulla sesta. Un endecasillabo in cui l’accento cade sulla quarta, ma la parola è sdrucciola, non è considerato canonico. Si chiama “endecasillabo rolliano”, dal suo autore Paolo Rolli, che però appunto non è canonico. Generalmente, anche la decima sillaba tende ad essere piana. Non significa che i classici non l’abbiano mai fatto. Anzi, a parte il suddetto Rolli, si trovano parecchi esempio, ma bisogna sapere le cose prima di poter sgarrare. Ah, dimenticavo. L’accento su quarta, sesta e decima devono ragionevolmente essere con termini sensati, tipo aggettivi, verbi e sostantivi. Una preposizione articolata non vale! Perché? Perché così si capisce bene che l’accento è lì. A me è capitato di mettere l’accento sulla quarta usando l’avverbio “lassù”, ma perché, per come ho imbastito l’emistichio, l’accento risultava evidente: “e, da lassù, lo cogliesti al mordace / freddo […]”. Non è che state facendo un peccato mortale ma, intendiamoci, se volete scrivere bene, dovete avere orecchio e sensibilità per queste cose.

L’altro verso maestro della poesia italiana è il settenario, con l’accento secondario/obbligatorio almeno sulla seconda e fino alla quarta, evitando ovviamente i contraccenti. Da quanto detto si capisce il successo di questi due versi: la loro estrema versatilità, cosa che arriva a creare una variabilità di ritmo incredibile. Una delle più comuni e celebri forme di verso sciolto (*) è proprio il mix di endecasillabo e settenario. Leopardi era un maestro in questo tipo di componimento (vedi “La ginestra”).

* Il verso sciolto è sempre in metrica e senza rima, ma abbiamo versi di diversa lunghezza. Ad esempio novenari misti ad endecasillabi, settenari, quinari ecc. Può essere MOLTO interessante e stimolante scrivere così! Se dico endecasillabi sciolti, indico versi tutti di lunghezza dell’endecasillabo senza rime.

2) Ottonario, novenario, decasillabo e altri versi
Altri versi importanti della metrica italiana sono l’ottonario, il novenario e il decasillabo. L’ottonario porta l’accento secondario/obbligatorio sulla terza (quindi 3-7), mentre il novenario sulla seconda e quinta (2-5-8, ma esistono altre varianti canoniche che lascio a voi da approfondire). Il loro problema è che sono difficili da maneggiare come versi e quindi non hanno riscosso lo stesso successo dell’endecasillabo e del settenario. Nella fattispecie, l’ottonario e il novenario diventano facilmente dal ritmo filastrocca. Idem dicesi per il decasillabo, che risulta fortemente cadenzato (accento secondario/obbligatorio sulla terza e sesta, quindi 3-6-9). Pochissimi poeti hanno saputo usare questi versi con estrema genuinità e naturalezza. Ad istinto mi viene in mente Pascoli, che ha pure sperimentato varianti del decasillabo. Ma noi non siamo Pascoli! Infine, menziono il quadrisillabo con accento sulla terza sillaba (adatto alle filastrocche, non per poesie serie e impegnate), il senario con accenti su 2-5 oppure 1-3-5 (anch’esso è adatto per argomenti leggeri e satirici) e il quinario solo la 4.

N.B. Quando dico accento secondario/obbligatorio, intendo che lì l’accento ci dev’essere per forza di cose. Ci possono chiaramente essere altri accenti, ma non contraccenti (almeno per norma non ci sono contraccenti, salvo cesure).

Ovviamente ci sono i versi più piccoli, ma diciamo che ho menzionato quelli più importanti. Per chi vuole scrivere haiku, poiché esso è un componimento formato da settenari e quinari, sappiate semplicemente che, nel quinario, l’unico accento da rispettare è quello sulla quarta (evitando i contraccenti). Notate come l’endecasillabo sia tale in quanto l’unione di un quinario e un settenario (o viceversa).

Se questa guida vi è stata utile e volete provare ad esercitarvi, buon divertimento!