La motivazione dell’amore

Ai tempi della scuola, avevo abitudini diverse dai miei compagni. C’era chi era indisposto allo studio e rischiava sempre di essere bocciato. Ci fu poi un anno dove gli elementi peggiori furono bocciati in massa. Ma non è verso di loro che voglio fare il confronto. Intendiamoci, le mie medie scolastiche non erano da secchione, ma me la cavavo. Ho avuto la media dell’8 in filosofia e latino, ho preso dei 10 in inglese, per due anni ebbi la media dell’8 anche in matematica, poi 9 in storia. Eppure, passavo i miei pomeriggi a dormire dopo i soliti cartoni animati (Dragon Ball, i Simpson e Futurama). Dormivo perché vivevo la notte, scrivendo al computer quando ancora internet era per pochi o guardando la televisione. Non dedicavo praticamente mai il tempo allo studio, mentre i secchioni avevano la testa sui libri fino all’ora di cena. Ammetto che i miei anni di scuola sono stati molto intensi. Fui addirittura sospeso per due volte e bigiavo, ma avevo già capito alcune cose della vita. Avevo capito che ciò che conta, nella vita, è fare ciò che si ama. Io amavo il basket, così bigiare da scuola era un buon modo per andare a fare due tiri al campetto dell’oratorio vicino dove trovavo sempre una palla disponibile. Amavo la musica (avevo anche provato a suonare la chitarra e la tastiera), così bigiavo per andare a Milano o al vicino centro commerciale per acquistare album musicali con i soldi risparmiati dalla merenda. A posteriori, dopo tutti questi anni, non incoraggio nessuno a bigiare, ma quelle erano sensazioni di vita vissuta alla grande. Gli insegnanti erano forse confusi nei miei confronti. Uno di loro diceva che non c’era nessuno con le mie qualità in classe. In generale, riconoscevano che sapevo il mio fatto, ma allo stesso tempo ero anche reputato il classico alunno che non si impegna come potrebbe o dovrebbe per prendere voti migliori. La domanda che mi risuonava sempre in testa era: è perché mai avrei dovuto farlo? Mi veniva spontaneo avere una media generale del 7. Per avere una media superiore, avrei dovuto buttarmi sui libri come i secchioni fino all’ora di cena. Ma non ne valeva la pena. Il quantitativo di energia da spendere era eccessivo. Per me contava di più coltivare ciò che amavo. Lo studio ce l’avevo già dentro e lo praticavo quotidianamente, approfondendo tutti gli argomenti che mi facevano crescere come persona, che si trattasse di matematica, storia o filosofia o dei testi delle mie band preferite o dei libri dei miei autori preferiti (mi piaceva molto Stephen King, all’epoca). Imparavo non per il voto, ma per la vita.

Poi mi diplomai. Ebbi delle esperienze lavorative che mi fecero già intuire come il lavoro fosse una prigione sociale. C’erano capi che non capivano un tubo e che pretendevano che facessi il loro schiavo, apprendisti sottopagati o gente giovane con esperienza ma nessuno voleva far fare esperienza ai giovani, orari di lavoro che impedivano di coltivare i propri oggetti d’amore, pause pranzo di mezz’ora e turni notturni. Eccetera, eccetera, eccetera. Impiegai così il tempo prima di iscrivermi all’università. Scelsi geologia. Venne spontaneo. Amavo la natura, quindi mi venne del tutto naturale approfondire qualcosa che amavo. All’università, non potevo più permettermi di dormire al pomeriggio, ma continuavo a vivere la notte. Passavo i pomeriggi a lezione o a laboratorio o ad esercitarmi in attesa degli esami. Anche all’università, però, c’era sempre qualcosa in cui non mi riconoscevo. I discorsi che sentivo si basavano sul frequentare quel corso di laurea con l’aspettativa di uno sbocco lavorativo. Anche se c’era gente che amava davvero la geologia, non ricordo nessuno che abbia detto di aver scelto geologia perché amava la materia. Si preoccupavano di trovare un posto di lavoro importante e ben pagato. Io storcevo il naso, perché ritenevo che un buon posto di lavoro dovesse essere conseguenza dell’amore per la geologia, e non che studiare geologia fosse una specie di “buon partito” per avere lavoro. Qualcuno mi vedeva già come ricercatore, ma io ero consapevole che comunque certi posti di lavoro sono riservati alle menti più eccellenti. Quindi, la maggior parte di chi aveva scelto geologia per avere un buon lavoro comunque non avrebbe avuto successo e sarebbe finito nella schiera di coloro che si lamentano che non c’è lavoro, ma solo perché pretendono di avere il lavoro che loro vogliono e il migliore che esista. Io avrei anche accettato di fare lo spazzino se quello significava avere il pane con cui vivere. E l’avrei sicuramente fatto volentieri rispetto a un posto come ricercatore che mi avrebbe portato via tutta la giornata e recato stress. Quello stipendio, tutto sommato, proprio come a scuola, era più un onere che un onore. E sia chiaro, anche in università non prendevo voti tanto diversi dalla scuola. Mineralogia e petrografia erano le mie materie preferite.

L’amore e la semplicità

Non pretendo di certo che vi interessi la mia carriera dalla scuola all’università. Il motivo per cui vi ho raccontato che razza di testone ero è che, nella vita, dobbiamo mettere amore nelle cose. Senza amore, il voto alto che avremo sarà solo un surrogato di autostima, da successo. La fatica fatta per raggiungere quel voto non sarà gratificante, ma un impegno da bravo ragazzo sempre diligente che però non sa assaporare il lato romantico della vita. Senza amore, il lavoro sarà solo una prigionia sociale, un dovere, e magari saremo tra quei medici che daranno spiegazioni ai pazienti come se fosse un favore, non vedendo l’ora di tornare a casa aspettando che, di rientro a casa in rientro a casa, arrivi anche l’ultimo giorno rendendoci conto di aver sprecato la vita. Questo vale per tutto nella vita, anche nello sport. Non importa se arrivate ultimi in una gara. Ciò che conta è amare la corsa e arrivare ultimi dando comunque tutto se stessi e, magari, facendo anche il proprio personal best.San Marino dopo il gol all'Inghilterra il 17 novembre 1993 È per questo che, dopo le dichiarazioni del calciatore Thomas Müller che ha definito inutili le gare come quelle di qualificazione contro San Marino (il piccolo paese, l’11 novembre 2016 ha preso 8 gol dai tedeschi), il calciatore bavarese può vantare tutti i trofei che vuole, beneficiare del suo lauto e milionario stipendio, ringraziando la sua genetica per questo. Ma sono i sammarinesi, rappresentanti di una Nazione di 30 mila abitanti circa, ad essere i veri vincenti, perché si divertono, amano giocare e sono felici di confrontarsi con i migliori, dando tutto anche se perdono 8-0 in casa. A Müller, manca il dono della semplicità, motivo per cui i suoi trofei e il suo conto in banca non bastano a renderlo un vincente a livello esistenziale. Proprio come la gente che ho conosciuto a scuola e all’università.

Imparare ad essere ultimi
La società dei falliti