Una vita in catene

Era legato a quelle catene da non sapeva più nemmeno lui quanto tempo. Era diventato normale vivere lì, al buio di quella caverna, con le giornate che erano tutte uguali. Ma non sapeva che concetto avessero esattamente il giorno e la notte. Notava solo che lì, in quello spiraglio, la luce si alternava al buio, quello stesso buio della sua caverna. Era tutto ciò che notava da quello spiraglio lontano. Più il tempo passava e più era incuriosito di vedere cosa c’era là fuori. Le chiavi delle sue catene erano lì accanto, ma per un motivo o per un altro non trovava mai il coraggio di afferrarle per liberarsi. Perché avrebbe dovuto, d’altronde? Quelle catene erano così sicure, normali. Erano la sua più totale protezione rispetto all’ignoto. Poi, un bel giorno, non ce la fece più. Prese le chiavi, che incredibilmente qualcuno aveva lasciato tanto da non sembrargli vero, e si liberò dalle catene. Andò verso la luce, che iniziava ad accecarlo così tanto. Quando uscì, gli sembrò di essere diventato cieco. Aveva dolore agli occhi. Ci vollero dei minuti, ma ecco che finalmente riuscì a vedere. Gli alberi, il cielo, gli uccelli che volavano. Non riusciva a crederci! Era così bello, meraviglioso. L’uomo si riempì di stupore e si chiese come aveva potuto non accorgersi prima di tanta bellezza, come aveva potuto non trovare prima il coraggio per liberarsi e andare a vedere cosa c’era in quello spiraglio. Fece in tempo di guardarsi le mani. Erano piene di rughe, ma non sapeva cosa fossero le rughe. Ebbe un infarto e morì. Non si era accorto di essere invecchiato e che la sua ora era ormai finita.

La storia che ho voluto raccontare deriva dal famoso mito della caverna di Platone, che ho riadattato con un finale più tragico. Come con il mito della caverna di Platone, è una metafora. Una metafora di come viviamo quotidianamente imprigionati dai condizionamenti e con il dovere di seguire strade che accettiamo di seguire acriticamente, pensando che non possa esistere di meglio, che è così che uno è tenuto a stare al mondo, che è così che fanno tutti, che è così che si è dei “bravi ragazzi” (e non è un complimento, in questo caso). Accettiamo di sacrificarci per un qualche ideale o idolo come la famiglia, il lavoro. Chi si sacrifica per tutto questo viene addirittura considerato un eroe. Peccato che la medaglia che ricevi per il tuo sacrificio non sia placcata d’oro come quella dei militari. Il tuo “premio”, se così si può definire, è un lavoro che ti uccide l’esistenza per 12 ore al giorno per uno schioppo di stipendio, con datori di lavoro che ti sfruttano e colleghi che ti scaricano tutto il lavoro che non vogliono fare, salvo poi prendersi il merito. Ti immoli per la “causa del lavoro”, arrivando alla pensione dicendoti che, forse, fare il barbone sarebbe stato più dignitoso. Ti immoli per la famiglia, in una vita di coppia che dall’euforia dei primi tempi si è trasformata in una quotidiana lotta per la sopravvivenza, cercando di allevare i propri figli alla meglio e pensando ai suoi bisogni arrangiandosi in tutti i modi possibili. Sì, la gioia della famiglia, i figli sono sempre un miracolo di Dio, poi non importa se sei costretto a prendere pillole per tirare avanti e il partner ti tradisce con la segretaria più giovane o se tua moglie si è fatta l’amante perché è stufa della monotonia della vita coniugale. Ed ecco che quei folti capelli che avevi a 20 anni o quelle lunghe e rigogliose fronde che avevi quando eri una bella ragazza desiderata da tutti cadono di pari passo allo scorrere della tua esistenza. Il governo continua a tassarti, il mutuo della banca ti strozza peggio di un serial killer. Inizi a pensare che davvero sarebbe meglio se un serial killer ti facesse fuori. Tutto quello che riesci a guadagnare in stipendio si brucia così: per pagare il mega mutuo, per mantenere la famiglia e la prole e tutte quelle necessità come la bella macchina e le cene al ristorante. Non esistono più le partite a calcetto con gli amici, al massimo gli unici ritrovi che ci sono avvengono di quando in quando e sempre costantemente accompagnati dalla prole che semina la tempesta dovunque.

Così, inizi a guardare un po’ con invidia chi parte e gira per il mondo con uno zaino in spalla, alla Chris McCandless. Lo invidi, poi fai un po’ come la volpe con l’uva e ti dici che hai dei doveri e delle responsabilità. E quindi pensi a quanto sia immaturo l’aspirante McCandless! Ma sono doveri e responsabilità che TU ti sei sobbarcato, doveri e responsabilità che TU hai accettato senza sottoporre a critica. Hai ignorato le ricerche che dicevano che i figli minano statisticamente la felicità della vita di coppia, perché i tuoi genitori, fervidi cristiani, ti hanno insegnato che nella vita tutti fanno sacrifici e che i figli sono un dovere e un dono di Dio. E così, dopo anni e anni di prigione, inizi finalmente a pensare come avrebbe potuto cambiare la tua vita se avessi scelto la via della libertà, mettendoti anche tu in spalla quello zaino per viaggiare e conoscere il mondo. Una via dove sei libero di poter scegliere il partner che sia realmente compatibile, il lavoro che ti permetta di campare senza ammazzarti per pagare il super mutuo. La libertà di fare un figlio per amarlo, non per dovere sociale o religioso, non come proiezione dei tuoi desideri e delle tue ambizioni, cose che saranno puntualmente deluse se il figlio vedrà che c’è di meglio. La libertà di non sopravvivere aggrappandosi a un dio, ma con la consapevolezza che la dignità sta nel coltivare al massimo ciò che si ama e accettando la morte come qualcosa di normale, il meritato riposo dopo un’esistenza vissuta da leggenda. Ma ormai è troppo tardi: hai sprecato la tua chance.